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Recensione al romanzo di Daniela Scimeca, Il Mistero della tomba di Federico II

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Uno dei luoghi più famosi di Palermo, ma forse anche quello meno profondamente conosciuto, è la sua Cattedrale, ricca di cappelle, reliquie sacre, dipinti, altari e ricche absidi, ma anche di Tombe Reali e di misteri. Ed è su questa base che si fonda e trae linfa il romanzo di Daniela Chimeca, Il Mistero della tomba di Federico II, edito da Bonfirraro, finalista regionale al premio letterario la Giara (RAI), e presentato dalla Prof.ssa Gabriella Maggio il 10 novembre 2014, presso la libreria Mondadori di Palermo. Daniela Scimeca forse, peccando di modestia, si considera ancora un’esordiente, ma in realtà non è nuova a fatiche romanzesche e letterarie. Nel 2011 pubblica il suo primo romanzo, edito da Sbc Edizioni, “La lunga marcia verso casa”, un diario della memoria familiare che dà voce ai ricordi dei nonni sullo sfondo della grande guerra. Ancora una volta, nel Mistero della tomba di Federico II, storia e recupero memoriale fanno da struttura compositiva al suo romanzo. Un romanzo che è stato definito come un thriller storico, ma dal quale emerge una più vasta commistione di stili e generi letterari. Lo spunto della storia è un fatto di cronaca e riguarda l’annosa vicenda delle indagini sulla tomba di Federico II Hohenstaufen, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero, sepolto proprio nella Cattedrale palermitana. La tomba di Federico fu riaperta diverse volte nel corso dei secoli. Già nel Trecento il sepolcro aveva accolto due nuove salme, in cui si erano riconosciuti Gugliemo duca di Atene e Pietro d’Aragona, entrambi della casa di Svevia. Risale al 1781 una riapertura nel corso dei lavori di ristrutturazione, che fu occasione per un’indagine più accurata, di cui si ha testimonianza nell’opera di Francesco Danieli “I regali sepolcri del Duomo di Palermo”. Il Danieli fu il primo a interrogarsi sulle reale indennità della terza salma, che a suo parere apparteneva non già a Guglielmo d’Atene, bensì a una “donna misteriosa”. Nel 1994 si avviarono nuovi studi e operazioni di ricognizione riccamente finanziati, ma che, senza fornire adeguate spiegazioni, non sortirono l’effetto sperato. Ciò che rimase, da quell’ultimo tentativo, fu la stessa domanda che si poneva Danieli nel Settecento: di chi sono i corpi sepolti nella tomba assieme a Federico? È in qualche modo è da qui che il romanzo ha origine, da un interrogativo, frutto di curiosità scientifica e del desiderio, innato nell’uomo, di conoscere la verità.  La protagonista del romanzo della Scimeca è una ricercatrice e professoressa palermitana, Caterina Albini, forse alter ego della scrittrice stessa. Caterina ha da poco subito la perdìta del padre, illustre professore di Storia, e si sente investita del compito di proseguirne le ricerche. Queste la portano a interessarsi, spronata dal vescovo in persona, alla storia del sepolcro federiciano. E così, coadiuvata da Padre Carmelo e dal fascinoso prete protestante Peter, Caterina recupera gli appunti e gli studi paterni, decisa a non deluderne la memoria e a dipanare quell’intricata matassa.  La vicenda, dopo un prologo dal passato, si svolge in una Palermo moderna e ben collocata nel tempo (siamo nel 2003) ma si sposta anche in altre città: Bonn, Stoccarda e soprattutto Alessandria d’Egitto. Se la prima parte dell’opera ha un ritmo meno incalzante, ma è condotta in modo da spiegare al lettore l’antefatto narrativo, fornendogli la base storica della vicenda e presentando i personaggi principali, la seconda parte è più agile e movimentata e giustifica la categoria di thrillercui il libro afferisce. Un thriller storico, in cui però la storia ha diversi livelli: quello dei fatti storici antichi, che riguardano Federico II; un livello di riscrittura fantastica che aggiunge alla storia ufficiale personaggi inventati come Monch e Caspar; quello dei fatti reali contemporanei, e infine, la rivisitazione di quegli stessi fatti alla luce della “licenza poetica” d’autore: si pensi ad esempio al riferimento a un dipartimento di “Latino” che per ragioni narrative sostituisce l’allora vigente Dipartimento Agliaia: Studi greci, latini e musicalitradizione e modernità o alla figura affabile e servizievole (a volte fino all’eccesso) del “segretario” Antonio, più un fido tuttofare che un reale segretario amministrativo. Ciò che colpisce è di certo la disinvoltura con cui l’autrice si muove senza scossoni tra questi vari livelli storico-compositivi, mossa da un filo rosso tematico e formale: la ricerca della verità.

«… la verità rinfranca, rende tutti più leggeri e libera da scomode responsabilità, cosìcome la confessione libera dal peccato…» p. 96

Una vera e propria dedizione alla causa della veritas, che fa esclamare a uno dei personaggi secondari:

«In favore della verità avrà sempre la mia più completa disponibilità» p. 97

Ma la verità non è sempre un punto di forza, a volte è una prova, una ferita che difficilmente si rimargina, come accade per Peter e per il passato della sua famiglia, vicino a certi ambienti nazisti:

«… non potevo immaginare tutto questo, deve essere stato terribile portare il peso di certe verità…» p. 103

Ed ecco che la ricerca scientifica e storica si intreccia con quella interiore ed interiorizzata, con un percorso esistenziale di ricerca di sé, che si gioca anche, e forse soprattutto, come recupero del proprio io in rapporto all’identità parentale. L’ombra confortante del padre aleggia per tutto il romanzo, è una stella polare della rotta di Caterina, che con quello si colloca in una sorta di rapporto di imitatio – aemulatio, una gara virtuosa al superamento paterno, come nel ricordo di Caterina dell’esame di latino superato con un voto migliore perfino del compianto genitore. La tensione cresce e sfocia nella seconda parte del romanzo, per poi distendersi nelle spiegazioni finali e nell’epilogo, in cui i nodi vengono sciolti attraverso il recupero puntuale degli indizi, che un lettore attento non avrà trascurato di raccogliere e mettere da parte sin dalle prime pagine: «E se fosse un’amante la misteriosa donna del sarcofago di Federico?» esclama già Caterina a pag. 51, non troppo lontana dalla verità. Questa la condurrà a disvelare i segreti più sordidi del potere e dell’accademia, la cieca e arrogante pretesa di ambizione e prestigio di certi professori troppo pieni di sé, pronti a sgomitare anche a scapito della vita e dell’onestà. Caterina scoprirà così un orrendo mistero, che la toccherà da vicino, cambiandola per sempre. L’autrice, pur affermando di non aver seguito dei modelli specifici, cosa rara per uno scrittore, ci dà nel libro stesso indizi importanti dei suoi riferimenti letterari e forse anche di quelli “cinematografici”. Il nome della rosa di Eco è una presenza palpabile nel romanzo, a partire dall’atmosfera e dalla descrizione del prologo, e per via di certi snodi e temi narrativi, dall’enigma al ruolo dei monaci nella storia. Una conferma sembra arrivarci dal racconto stesso:

«L’abbazia si trovava presso la piccola cittadina di Maulbronn da cui appunto aveva preso il nome… Peter aveva raccontato con orgoglio che alcune scene del film Il nome della rosa erano state girate proprio lì e lui, poco più che diciottenne, aveva assistito all’allestimento di alcune scene». p. 104

D’altra parte, la Curia e i suoi segreti, il mistero inenarrabile e pericoloso che si cela dentro un’opera d’arte monumentale come la tomba di Federico ci ricordano da vicino il Dan Brown del Codice da Vinci, anch’esso noto al grande pubblico attraverso la trasposizione cinematografica. E infine una citazione che sembra quasi dovuta, un debito verso un maestro della narrativa di e su Palermo e i suoi abitanti: Tomasi di Lampedusa col suo Gattopardo, di cui si recupera il tema dell’incapacità siciliana – forse solo di una parte dei siciliani, ormai – di abituarsi al mutamento. Di certo il punto di forza di questo romanzo è l’idea di base, di grande fascino, e la profonda ricerca storica di fonti e informazioni che ne fa un testo ben documentato e interessante. L’unione di fiction, storia e thriller è una sintesi davvero avvincente. Particolarmente apprezzabili la volontà dell’autrice di comporre una storia che sia ambientata in luoghi del vissuto, seppure riscritti, e sfrutti la grande risorsa della nostra storia di Sicilia, così ricca e affascinante, anche nelle sue pagine più cupe. È giusto, dunque, cedere la parola a Daniela Scimeca, per la chiusa finale, unendosi alla sua dichiarazione conclusiva:

«Scrivere questo romanzo è stato come fare un viaggio nel tempo e nella storia». p. 211

Ed è stato così anche leggerlo.

( Lavinia Scolari)

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