TAXI TEHERAN
- Editore
- Gen, 18, 2016
- Arte
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(Gabriella Maggio)
Il regista Jafar Panahi si finge tassista per offrirci una tranche de vie della sua città. Ha istallato una telecamera sul cruscotto dell’auto in modo da filmare a loro insaputa i passeggeri e i loro discorsi. Sul taxi sale gente qualsiasi, ma tanto bene assortita da toccare alcuni dei punti nevralgici del regime iraniano: la punizione severa dei reati, l’impegno per difendere i diritti civili e naturalmente girare e distribuire film, cercando invano di distinguere quelli che sono distribuibili dagli altri. Legate insieme dalla finzione del taxi, che fa da cornice, s’intrecciano storie semplici e vere. Si tratta indubbiamente di un film che ha l’aria di non esserlo e che si snoda sul filo sottilmente ambiguo e talvolta ammiccante che lega finzione e realtà. Panahi mette in scena il gusto puro dell’affabulazione che sfida il silenzio e la censura; gira Taxi Teheran nel 2015, cinque anni dopo essere stato condannato dal suo Paese a non girare film né scrivere sceneggiature, rilasciare interviste, viaggiare per vent’anni. Infatti i suoi film – denuncia, che hanno sollevato la questione della condizione delle donne e dell’osservanza dei diritti civili, vengono considerati immorali. Al contrario sono stati molto apprezzati nei festival europei di Cannes, di Venezia e di Berlino. Taxi Teheran ha vinto l’Orso d’Oro.
Concerto Brandeburghese
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