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Recensione a “Echi” di Gabriella Maggio a cura di Ornella Mallo

Intitolare “Echi” la propria silloge ha per Gabriella Maggio un preciso significato: l’eco è l’ombra della voce, ciò che, nell’esaurirsi implacabile delle esperienze, resta e risuona dentro l’anima.
Il significato degli eventi che accadono, infatti, non si coglie nel vivo dell’attraversamento, ma solo dopo la loro conclusione: è a questo punto che il vissuto rilascia, insieme al ricordo, il senso.
È la stessa Poetessa a metterci sull’avviso di questa interpretazione: nella poesia “Promessa di fortuna” scrive: “L’araucaria al vento leggero / mormora le parole della fortuna / al mare che compone versi / al ritmo lento della risacca / e l’eco ancora rimbomba pungente di pioggia / […] Nella nebbia la rara la luce di un faro / porta echi di un tempo smemorato / s’attarda il rimescolio blasfemo / con tramonti e attimi d’alba / e scompiglia la vita.”
Dunque, è la vita, esaminata in ogni suo dettaglio attraverso la lente d’ingrandimento della poesia, il tema che affronta l’Autrice nella raccolta. E lo svolge senza nessun infingimento, senza retorica, mettendosi a nudo.
Gabriella Maggio nella poesia che apre la raccolta rivela il suo sentirsi in un “Limine dubbioso e sempre solitario”, in un tempo indefinito oltre che incerto; il suo sentirsi “sulla soglia” si traduce in un sentimento di attesa che logora. Opportuno accostare alla Nostra quanto scriveva Simone De Beauvoir in “Una donna spezzata”: “La porta si aprirà lentamente e vedrò cosa c’è dietro. C’è l’avvenire. La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che vi è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamare nessuno in aiuto. Ho paura.” Il controcanto della Nostra, nella poesia “Fraterno Ulisse”: “Nel silenzio salpano gli ormeggi / e la malia delle dolci case / ma il viaggio fa pieno di dubbi / e l’onda è paura del naufragio / Senza più stelle nelle strade della città / la bussola non indica più il nord.”
Altrove leggiamo: “Il tiepido sole del giorno / ha strappato all’alba il suo sogno / l’ha disperso a brandelli / tra gelsomino e spine di rose / bruciate dal gelo / m’affanno nella veglia / e recupero qualche filo / dalle spine”.
Vengono in mente, al proposito, le parole di Virginia Woolf in “Le onde”: “Il mio destino è che ricordo e intreccio in un’unica corda i molti fili, quello sottile e quello spesso, quello rotto e quello intero, della nostra lunga storia, della nostra giornata tumultuosa e varia. C’è sempre un’altra cosa da comprendere, un’altra dissonanza da ascoltare, una falsità da correggere.”
È esattamente questo l’atteggiamento con cui Gabriella Maggio guarda al suo passato, e al presente illuminato dal riverbero che il vissuto irrora. E la poesia, in questo scandaglio, è illuminante: “Obscura de re tam lucida pango carmina”. La poetessa cita Lucrezio nel componimento metapoetico “Alma poesis”, sottolineando come “I versi cercano sempre la luce / per l’agile slancio dell’equilibrista”; e in questo, Gabriella si sente solidale nei confronti di tutti gli altri poeti che, come lei, si uniscono, per il tramite della scrittura, sotto “l’albero della vita”, per aiutarlo ad affiorare dal buio.
Ma questi tempi così confusi rendono difficile al cuore “dispiegare il canto”, “più certa l’oscurità / Sul tavolo restano dolenti / e spesso muti / gli strumenti della scrittura”.
La poetessa, dunque, compie un viaggio dentro sé stessa alla ricerca di bilanci, di valutazioni del vissuto alla luce di quel che è stato e delle possibilità che invece sono venute meno: “Mi sorprendo spesso a trarre presagi dai numeri / sommati e divisi intrecciati o scomposti / / Sono segni insondabili di possibili svolte / lievi barchette di legno colorato / troppo piccole per passare il mare // Il tempo scorre nel silenzio / il presente s’infutura e già è passato / consensi amari e dinieghi, vuoti e pieni / somme e sottrazioni senza moltiplicazione / Non amo la divisione, preferisco almeno l’addizione.” Il suo è un approccio decisamente laico: “Ho acceso per te una candela […] davanti all’iconostasi non prego / stringo in gomitolo ricordi / nella fioca luce / che rapida /illumina nell’attimo le tenebre.” In questo sguardo a ritroso risuonano gli echi delle favole ascoltate nell’infanzia e delle figure più care alla Nostra: la nonna Giovannina, che sola capiva quelle inquietudini adolescenziali di Gabriella, di cui custodiva, in gran segreto, dentro di sé, il ricordo – “nessuno lo conosceva / era tuo e basta / come i pochi oggetti della tua vita.” -; il padre, di cui la Poetessa racconta come fosse stato capace di trarsi in salvo durante la guerra -“Per me  che ascoltavo attenta / era una favola a lieto fine / una delle poche / tra le morti della guerra”- ; il marito, di cui ricorda il “ridere così, per niente / per le piccole cose d’ogni giorno /” che si confrontavano e si scontravano “ con la “salda realtà” costruita insieme, “più forte del diamante”; l’amica scomparsa, a cui dedica versi struggenti mescolati a citazioni stralciate dal centounesimo carme di Catullo – Indigne adempte, Amica / […] / l’ombra t’avvolge su terre fredde e solitarie.”
Lo sguardo di Gabriella si posa anche sulla società che la circonda, dei cui abitanti sottolinea il solitario andare, indifferenti gli uni agli altri. In “Questo tempo epico / di assoluta vertigine che vuole tatto e suono”, “C’è un velo di tristezza nell’aria / per le vie e le piazze deserte / radi passanti frettolosi / scantonano con occhi bassi / e bocche serrate //”. È evidente il riferimento al lockdown, ma la constatazione dell’oscurità dei tempi permane anche dopo la pandemia. Gabriella, infatti, denuncia l’orrore della guerra in Ucraina, scoppiata immediatamente dopo l’emergenza Covid, sottolineando come non possano essere assolti coloro che perpetrano crimini di guerra: “Il giorno è informe / pesa sulle macerie della terra e del cuore / ma l’orgoglio resta forte // – E allora? – Chiede la pena dei morti e degli stupri / – Non c’è perdono – grida alta una voce / non si sa da dove.”
Quello della poetessa è un punto di vista squisitamente femminile. Da qui deriva l’attenzione rivolta alle donne vittime di violenza, con cui si identifica sovrapponendo in toto la propria esperienza di vita alla loro. Nella poesia “Tra donne” leggiamo: “Nel letto sfatto infuria ebbro il possesso / truccato d’amore / e il monito del silenzio / Puoi capire l’inganno? / Abbandona la pietà / anch’io donna uguale a te / sorella madre figlia / sono rimasta muta davanti a lui.”
La poetessa apre comunque il varco alla luce: “Di là dal muro spuntano già i fiori /nella primavera della speranza”. La possibilità di un mondo migliore è riposta nell’amore: “La tempesta ha infranto la nostra morgana / disperso e offeso l’audacia delle tue chimere. / I cocci sono sparsi a terra / e mi è difficile raccoglierli / aspettano il tuo amore / a ricomporli ancora questa volta”.
La poesia di Gabriella Maggio scava negli abissi dell’animo servendosi di un linguaggio semplice e scarno. Echi della sua formazione classica sono le colte citazioni di Lucrezio, Orazio, Catullo, il suo indugiare, tra gli scavi archeologici, a raccoglierne una pietra, a testimonianza di un’antica grandezza che è possibile, sia pure con difficoltà, dati i tempi, riproporre come monito e obiettivo. Le sue liriche rendono appieno il senso di disorientamento tipico di questa epoca di omologazione, mortificante l’unicità e l’originalità dei singoli individui, ridotti a essere poco più che “burattini”: “I burattini talvolta diventano umani / quando il circo si svuota / […] Non visti piangono amaro con la testa china.” Prevale, nella silloge, il sentimento della sospensione, dello smarrimento di fronte a un avvenire assolutamente ignoto; ma l’attesa non soffoca la fiducia nella “pienezza della vita”, per cui trovo quanto mai opportuno concludere con le parole di Hesse: “Così cadono le fronde intorno all’albero in autunno: esso non ne sa nulla, la pioggia lo bagna o lo colpisce il sole o il gelo, la vita gli si ritrae lentamente in uno spazio minimo e intimo. Esso non muore. Aspetta.”

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