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Marco Onofrio a Roseto Capo Spulico (CS) per la poesia d’amore di Dante Maffìa

 

Vorrei dedicare questo mio intervento alla memoria del papà di Dante Maffìa, nativo di Cassano Ionio, che proprio il 10 agosto 1960, domani 62 anni fa, abbandonava il suo percorso terreno. E voglio farlo con una breve poesia che il figlio scrisse per ricordarlo:

LA BOTTEGUCCIA (“Ritratto del padre”)

Aveva una botteguccia
buia striminzita.
Ci ha passato l’intera vita
come un abito sulla gruccia.  

Avvertiamo in soli quattro versi tutta la storia di Salvatore Maffìa, l’inanità dolorosa e nobile del suo sacrificio di uomo comune, da cui Dante ha tratto l’onestà, l’orgoglio, la volontà tenace di credere nel lavoro e nel merito. Oltre la commozione, si coglie un primo assaggio dell’universalità dei temi nella poesia di D. Maffìa, anzitutto perché estrae materiali nel profondo dell’esperienza. Quindi lo “schianto interiore” che esplode nel sangue e aggancia il sentimento di ogni tempo e luogo.  Sono innumerevoli i temi affrontati dalla poesia di Maffìa, ma il tema dei temi è l’amore. Il lievito animante che consente alla sua scrittura poetica di insinuarsi ovunque ed esprimere qualunque cosa. Una specie di piattaforma girevole da cui partono e arrivano, a raggio, tutte le strade della dicibilità. Potenza infinita perché coincide con la forza magica che “move il sole e l’altre stelle”, e questo rende inconsumabile la parola: l’idea e la visione sono serbatoi inesauribili da cui il pensiero poetante non smette mai di attingere. Costellazioni potentissime del senso: terre che, per circumnavigarle, non basta una vita. Ecco perché “dopo ‘l pasto ha più fame che pria”, quando scrive e quando ama – che in fondo poi sono sinonimi. L’amore – anche inteso platonicamente come desiderio di bellezza, cioè tentativo di ripristinare la dimensione dell’assoluto da cui, nascendo, stiamo stati separati – è la potenza che produce l’atto, traducendo l’idea nella forma e arginando quanto più possibile il problema della materia. Difatti il passaggio dall’idea alla forma, in campo artistico, è sempre mediato da una materia. Prendiamo ad esempio il poeta: tra ciò che intende dire e ciò che effettivamente dirà, si oppone la resistenza delle parole “convenzionali”. Il poeta cerca di aderire, per approssimazioni infinitesime, all’indicibile realtà delle sue visioni.  Dichiara Maffìa nel libro-intervista, da me curato, “L’uomo che parla ai libri”: «spesso la parola, nel mentre la adopero, mi s’inclina, mi si distorce o vanifica e non riesce a compendiare quei fili sottilissimi di anima che cercano la verità dell’assoluto». E il Dante predecessore, l’Alighieri, racchiude questo cruciale problema creativo in una memorabile terzina del Paradiso (I, vv. 127-129): «Vero è che come forma non s’accorda / molte fiate a l’intenzion de l’arte, / perch’a risponder la matera è sorda». Vale a dire: se la materia fosse cera malleabile, la luce dell’Idea divina splenderebbe intera in tutte le cose create. Invece la materia, essendo “sorda”, oppone una mediazione sempre imperfetta: la Luce splende in barlumi di prodigio, mescolata alla zavorra oscura. Così anche l’artista, come un piccolo dio creatore, non riesce a materializzare in modo del tutto appagante l’idea, l’immagine mentale. Lo sforzo titanico è quello di accendere la capacità delle parole di superarsi. La forma diventa così “linea di confine” tra visibile e invisibile, mediante cui il “dio nascosto” può affacciarsi al bordo della percezione.  Questo assalto continuo ai cardini del mistero produce una lirica che, in Maffìa, non è più soltanto costruzione soggettiva della coscienza, ma luogo di transiti per cui l’io si riconosce “mondo” e consente al mondo di manifestarsi: la parola è così vicina alla cosa che sembra la cosa stessa. È il mondo che diventa scrittura nei suoi libri – e infatti tende all’estensione totale e onnicomprensiva del poema (tra la “poesia ininterrotta” di Paul Éluard e il “poema costante” di Borges): ne ha comunque il respiro, anche dentro la singola poesia. Una delle cifre della sua poesia è l’impossibilità di rinunciare a un approccio di sincerità assoluta alla vita e alla scrittura: Maffìa va «dritto al bersaglio» perché segue senza fronzoli la via primaria della conoscenza, quella del cuore. Che però, attenzione, non significa sentimentalismo, cioè ricettacolo di “luoghi comuni” utili per un abbellimento artificioso della realtà, bensì tragitto funzionale alla ricerca della verità. Sgorga come acqua pura da una coscienza cosmica totale, fatta anzitutto di amore e compassione per ogni cosa esistente. Il poeta cattura le essenze sottili, vede l’invisibile che il visibile nasconde, vive in uno stato di amore e ammirazione infinita per il prodigio in cui si trova immerso e di cui è parte. Può così sentirsi «eterno e maestoso, vivo / fino all’inverosimile» abbracciando

Questo dolore-amore che sbraita
e racconta di millenni in viaggio…

L’amore che “ditta dentro” ciò che il poeta va “significando” espande i riverberi della sua voce tra i poli dialettici della “dissolvenza” e della “resistenza”: Maffìa è consapevole che ogni cosa scomparirà senza lasciare traccia; e che, d’altra parte, nonostante tutto il vuoto del mondo, «non si perde nulla». Ed è tra questi due poli che si giocano le potenzialità riparatrici e compensative dell’espressione poetica, sicché «l’amore in fondo / è questo morire che perpetua il canto» in cui trovare la ragione del nostro ultimo significato. Ovviamente Maffìa non è nuovo all’argomento “amore” propriamente detto. A parte le liriche che troviamo sparse nei suoi libri, fin da Il leone non mangia l’erba, del 1974, ha pubblicato fra l’altro Canzoni d’amore, di passione e di gelosia (2002), Ultimi versi d’amore (2004), Il poeta e la farfalla (2014) e Il Vangelo secondo Amore (2019). Ora questi quattro splendidi volumi. Ma tutta la sua Opera in versi è scritta con la consapevolezza che il “motore del mondo” palpita forte nel cuore degli esseri umani, soprattutto quando sono illuminati e spinti dal desiderio di vivere l’incanto negli abbracci. Un motivo quasi ossessivo, che ogni volta si incarna in pietre preziose proprio perché egli sa entrare nella polpa viva del senso amoroso per trarne indicazioni che vanno al di là dell’occasione e rivelano il percorso umano. Per questo un argomento arci-abusato come l’amore, nei suoi libri non è mai banale o stucchevole, proprio perché coincide con la radice eterna della voce, con la possibilità stessa di pensare, scrivere, respirare. Come il colore di ogni altro colore, o un suono che consenta ogni parola.  L’amore viene setacciato e analizzato in profondità, vissuto e innalzato al cielo, goduto e osannato come una luce che apre tutte le porte del passato, del presente e dell’avvenire. Amore per le donne, i figli, i nipoti, i genitori, gli amici, la terra, il cielo, il mare, per il mistero e il dono d’ogni singola esistenza. Naturalmente l’esaltazione dell’amore è anche e soprattutto celebrazione della sua sacerdotessa primaria, la donna. L’inno alla donna come benedizione e consolazione produce centinaia di versi di lirica eccelsa, dove la divinità originaria del principio femminile che anima l’esistenza diventa talismano potentissimo, nonché argine al dolore e alla solitudine. La donna magnetizza e innesca l’amore, la gioia, la dolcezza, la grazia, l’eternità: tutto il buono e il meglio che possiamo opporre al gelo della morte. L’amore, di cui la donna è maestra fin da bambina, non solo vince la morte e trionfa sui limiti del tempo, ma agevola una conoscenza più intima del mondo: infatti è uno spiraglio aperto sul mistero, l’ignoto, l’inconoscibile. «Che sia l’amore tutto ciò che esiste / è tutto ciò che sappiamo dell’amore», scrisse Emily Dickinson; e Maffìa le replica chiedendo: «Ma poi cos’è l’amore / se non tutto ciò ch’è nostra conoscenza?» Amore è capacità di vedere il mondo con gli occhi della divinità; sentire tutto con stupore miracoloso, senza dare nulla per scontato; andare dritti al centro delle cose.

… l’amore vive ed è grande
e copre cieli e corre per i mari,
e si fa cielo e canto e rigenera i fiumi…

Gli imperi periscono tutti, prima o poi,
e non resta che fumo, massimo per tre giorni.
Amare, amare, ci resta solo amare
come amano le rose
mentre sbocciano e mandano al cielo l’aroma sublime
della loro frenesia; amare come si amano il mare e i
fondali dello Jonio
in continua lotta, abbracciati
indissolubilmente.

Amore è lievito di conoscenza e pane della vita.

Amore è «santo, santo, / compiutezza dell’Essere, Ragione Prima / dei sussulti del Senso. È il cammino / che segue nel silenzio il farsi del pane, / lo scroscio d’acqua, il fiorire del timo»; ad esso «ubbidiscono i venti, / il mare, gli alberi e i nembi»; è più forte della morte, sana le «ferite ai deboli, le offese ai puri»; «dà la vista ai ciechi, / dà la parola ai muti»; «rinnova a piene mani»; «cancella il peccato»; è «libertà del cuore», «unico lievito / per far crescere il mondo» e «scoprire i segreti più nascosti / del vivere e morire»…

Amore insegna l’abbandono necessario per imparare a «comportarsi come l’acqua», «amare come ama il sole / senza fare distinzioni» e «fare come gli usignoli / che cantano e non sanno / a chi è destinato il canto».

A questa forza sacra e prorompente della vita Dante Maffìa ha dedicato pagine straordinarie che cambiano lo sguardo del lettore, e che lo innalzano alla pari con i più grandi lirici di ogni tempo, anzi al di sopra, se è vero che – come ha scritto il traduttore sloveno Ciril Zlobec nel 2015 – la sua poesia riesce ad essere “densa e leggera insieme, polvere e macigno, sogno, tenerezza e viaggio verso l’assoluto”, per cui “Petrarca superato, Neruda sconfitto, Salinas lasciato indietro”. Leggiamo e amiamo Dante Maffìa così come lui legge e ama gli uomini, la vita, l’universo, estraendo da ogni cosa l’essenza della nostra indecifrabile avventura: essere vivi, qui, e appartenere al mondo.

Già postato sul blog di Marco Onofrio

 

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