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Davide Camarrone”Zen al quadrato”

Dal quartiere Castello S. Pietro allo Zen 2.  Nella Palermo degli anni ’80  una famiglia di quattro persone, Lucia e Nicola col figlio Filippo e la nonna Rosalia, accumula le proprie masserizie su un precario “lapino” per trasferirsi nella nuova casa. Non è facile, lasciarsi alle spalle il quartiere, il mare, le abitudini, le suppellettili  e accettare una casa senza balcone, l’immondizia e la violenza latente, ma spesso esplicita degli abitanti  dello Zen 2, Zona espansione nord, separata dalla città da una linea di confine mai cancellata. Si possono trasportare le cose , ma “Le vite non si trasportano. Restano dove hai vissuto. Ne cominci un’altra, quando lasci la tua casa, perdendo qualcosa, nell’esilio”, intuisce il giovane Filippo. Un trasloco è come un esilio, dal centro della città alla periferia, vissuto dai protagonisti con differenti sfumature. Filippo lo esprime col disegno, Lucia organizzando per le donne del quartiere “La casa delle donne”, Nicola collaborando col parroco, Rosalia restando tenacemente attaccata ai suoi ricordi, che rappresentano la sua identità.  Questi personaggi  comunicano poco tra loro,solo brevi frasi, quelle indispensabili della convivenza. Ciascuno vive  la propria  giornata chiuso in sé stesso, non rivela agli altri il proprio  cruccio, né si interroga o ha  dubbi e incertezze. Semplicemente vive, accettando quello che accade, senza individuare l’ ordine di grandezza  e di gravità dei fatti.  Lo Zen è lo scenario adeguato per esprimere il disagio e i paradossi dell’esistenza. Paradosso esso stesso  lo Zen, pensato dal suo progettista  Vittorio Gregotti  come quartiere polifunzionale con  teatri e luoghi di lavoro, in cui si sarebbero mescolati i ceti, ma tutto questo non si è   realizzato. È  rimasto incompiuto come  sinonimo di esclusione: “ All’artistico mi hanno accolto benissimo. Ma mi guardano in modo diverso, da quando hanno saputo che vivo allo Zen  al quadrato”, dice Filippo. Nelle insulae si parlano lingue diverse : Noi di Castello San Pietro parliamo una lingua diversa, da quelli della Kalsa,  dagli zingari e dai Baucina  ognuno conserva le proprie abitudini, non si assimila agli altri. C’è però un evento significativo che crea una certa aggregazione,  la vampa di S. Giuseppe : Tutti applaudono, gioiscono. La gente osserva quell’Inferno con orgoglio, come se fosse suo. Qui siamo più corna dure di tutti significano quegli sguardi. Sono venuti gli zingari , a suonare…Ballano tutti, trascinati dal fuoco, dall’ebbrezza di questa notte e dal ritmo, pure se si tengono lontani da quei due, dai baffi, dai vestiti strani e dall’aria di libertà che li circonda….Lo Zen al quadrato non è un quartiere come gli altri ma un organismo vivente, un mostro grasso e violento che inghiotte e digerisce ogni cosa.”  La “vampa” appare come un rito tribale che  coinvolge tutti per qualche ora,  assurgendo  a simbolo di liberazione e rinascita. Davide  Camarrone descrive luoghi e personaggi, registra fatti e cose nel loro semplice accadere. Risulta funzionale  quindi la scelta di suddividere la storia in quattro capitoli, uno per ciascun personaggio, che racconta dal suo punto di vista il trasferimento allo Zen 2 . Soltanto all’ ultima pagina del libro  il lettore acquisisce una  visione generale della vicenda della famiglia Caccamo. “Nessuno è tutto buono e tutto cattivo”ci dice lo scrittore , sia quelli che vogliono dare voce al disagio dello Zen 2, come Filippo con  i disegni e Lucia con  le iniziative sociali, sia quelli, come Nicola e Rosalia,  che si stringono addosso il proprio vissuto difendendone “ i segreti che  sono la verità che non si può dire …  la condanna di mettersi a disposizione.” Coerente con la struttura quadripartita è la scelta linguistica asciutta e scabra su cui si innestano colorite  espressioni dialettali per caratterizzare i personaggi e l’ambiente. Gabriella Maggio

 

 

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